martedì 19 marzo 2013

La vita di Giuseppe Verdi


Giuseppe Verdi

Nato a Le Roncole, vicino a Busseto (Parma), il 10 ottobre 1813 da un oste e da una filatrice, Giuseppe Verdi manifestò precocemente il suo talento musicale, come testimonia la scritta posta sulla sua spinetta dal cembalaro Cavalletti, che nel 1821 la riparò gratuitamente "vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi d'imparare a suonare questo istrumento"; la sua formazione culturale ed umanistica avvenne soprattutto attraverso la frequentazione della ricca Biblioteca della Scuola dei Gesuiti a Busseto, tuttora in loco.
I principi della composizione musicale e della pratica strumentale gli vennero da Ferdinando Provesi, maestro dei locali Filarmonici; ma fu a Milano che avvenne la formazione della sua personalità. 
Non ammesso a quel Conservatorio (per aver superato i limiti d'età), per la durata di un triennio si perfezionò nella tecnica contrappuntistica con Vincenzo Lavigna, già "maestro al cembalo" del Teatro alla Scala, mentre la frequentazione dei teatri milanesi gli permise una conoscenza diretta del repertorio operistico contemporaneo. 
L'ambiente milanese, influenzato dalla dominazione austriaca, gli fece anche conoscere il repertorio dei classici viennesi, soprattutto quello del quartetto d'archi. I rapporti con l'aristocrazia milanese e i contatti con l'ambiente teatrale decisero anche sul futuro destino del giovane compositore: dedicarsi non alla musica sacra come maestro di cappella, o alla musica strumentale, bensì in modo quasi esclusivo al teatro in musica.
 La prima sua opera, nata come Rocester (1837), frutto di lunga elaborazione, e poi trasformata in Oberto, conte di San Bonifacio, venne rappresentata alla Scala il 17 novembre 1839, con esito tutto sommato soddisfacente. 

L'impresario del massimo teatro milanese, Bartolomeo Merelli, gli offerse un contratto per altre due partiture: Un giorno di regno (Il finto Stanislao), opera buffa, ebbe una sola rappresentazione (5 settembre 1840), e solo con Nabucco, la cui prima ebbe luogo il 9 marzo 1842, il talento verdiano si rivelò appieno. Il modello dello spettacolo grandioso, dove la vicenda è disegnata a grandi tinte, si ripete nell'opera successiva, I lombardi alla prima crociata (Milano, Scala, 11 febbraio 1843); ed è con Ernani (Venezia, La Fenice, 9 marzo 1844) che l'esperienza drammatica si concretizza nel conflitto tra le passioni dei personaggi. Questa scelta stilistica prosegue con I due Foscari (Roma, Teatro Argentina, 3 novembre 1844), ed è ulteriormente raffinata in Alzira (Napoli, San Carlo, 12 agosto 1845). Tutte le opere della prima fase creativa verdiana si differenziano fra loro perchè in ciascuna di esse viene esplorato questo o quel particolare aspetto dell'esperienza drammatico-musicale. Così, in Giovanna d'Arco, dalla tragedia di Schiller (Milano, Scala, 15 febbraio 1845), l'elemento soprannaturale gioca un ruolo determinante nella vicenda, di nuovo attagliata soprattutto sul grandioso; mentre in Attila (Venezia, La Fenice, 17 marzo 1846) la sperimentazione riguarda tanto la spettacolarità sulla scena quanto l'organizzazione complessiva dei singoli atti che compongono la partitura. Con Macbeth (Firenze, La Pergola, 14 marzo 1847) Verdi affronta per la prima volta un modello shakespeariano, e soprattutto mette in evidenza le connessioni drammaticamente rilevanti tra momenti cruciali della vicenda, e questo con mezzi esclusivamente musicali. 

il trovatore di Giuseppe Verdi


Il trovatore è un'opera di Giuseppe Verdi rappresentata in prima assoluta il 19 gennaio 1853 al Teatro Apollo di Roma. Assieme a Rigoletto e La traviata fa parte della cosiddetta trilogia popolare.
Il libretto, in quattro parti e otto quadri, fu tratto dal dramma El Trovador di Antonio García Gutiérrez. Fu Verdi stesso ad avere l'idea di ricavare un'opera dal dramma di Gutiérrez, commissionando a Salvadore Cammarano la riduzione librettistica. Il poeta napoletano morì improvvisamente nel 1852, appena terminato il libretto, e Verdi, che desiderava alcune aggiunte e piccole modifiche, si trovò costretto a chiedere l'intervento di un collaboratore del compianto Cammarano, Leone Emanuele Bardare. Questi, che operò su precise direttive dell'operista, mutò il metro della canzone di Azucena (da settenari a doppi quinari) e aggiunse il cantabile di Luna (Il balen del suo sorriso - II.3) e quello di Leonora (D'amor sull'ali rosee - IV.1). Lo stesso Verdi, inoltre, intervenne personalmente sui versi finali dell'opera, abbreviandoli.


Atto I - Il Duello
Scena I - Palazzo dell'Aliaferia in Biscaglia.

Nell'atrio del palazzo, i familiari e gli armigeri del Conte di Luna attendono il rientro del loro giovane signore.
Il conte è innamorato di Leonora, dama della regina, e trascorre buona parte della notte a sorvegliare la casa della giovane, preoccupato ch'ella ceda alla corte del suo temuto rivale: il Trovatore.
Ferrando, capitano delle guardie, racconta la fosca vicenda di una zingara, condannata al rogo per maleficio e di sua figlia Azucena che, per vendicare la madre, rapì uno dei due figli del vecchio Conte di Luna.
Il nobile signore morì sopraffatto dal dolore quando Azucena buttò il figlioletto rapito sullo stesso rogo della madre.
Il racconto è raccapricciante e i presenti imprecano contro la malvagia Azucena, di cui si sono perse le tracce, mentre il fantasma della vecchia zingara infesta ancora il castello, dove appare allo scoccare della mezzanotte terrorizzando la servitù.

Scena II - Giardini del palazzo. 

Leonora, confida all'amica Ines il suo amore per il "trovatore", cavaliere sconosciuto, vincitore di tornei, il quale intona per lei affascinanti canti nel silenzio della notte.
Quando le due donne rientrano, avanza il Conte di Luna, deciso a parlare a Leonora, ma il suono del liuto del Trovatore ed il suo canto lo fermano.
Consumato dalla gelosia, il conte cerca di attirare l'amata in una trappola: si nasconde nel mantello e attende.
Leonora scende in giardino attratta dalla musica, scambia il conte per l'amato, lo abbraccia dichiarandogli il suo amore.
Il Trovatore assiste sbigottito ed accusa Leonora d'infedeltà, ma lei chiarisce l'equivoco e si getta ai suoi piedi confermandogli così il suo affetto.
Furente d'ira, il Conte costringe il rivale a dichiarare la sua identità: egli è Manrico, un seguace del ribelle Conte Urgel.
Il conte, sdegnato, lo sfida a duello e i due si allontanano con le spade sguainate, mentre Leonora sviene; nel duello, il Conte rimarrà ferito ma il rivale gli risparmierà la vita.

Atto II - La Gitana
Scena I - Un accampamento di zingari sulle montagne in Biscaglia.



Manrico è con Azucena, di cui crede di essere figlio, mentre lei gli racconta di come sua madre fu accusata, da un arrogante Conte, di avergli stregato il figlio e di come la povera donna fu incatenata.
Racconta poi che lei aveva seguito piangendo, la madre mentre veniva portata al rogo dicendo le sue ultime parole: "Vendicami".
Manrico le chiede della vendetta e Azucena gli risponde che per vendicarla, come presa da un raptus crudele, rapì il figlio del conte e lo gettò sul rogo mentre bruciava ancora.
Però, quando l'ira e l'allucinazione passò, la zingara si accorse di avere ancora il figlio del conte al suo fianco: il bambino bruciato nel rogo era il suo.
Azucena è sconvolta e Manrico è inorridito dal racconto e si chiede chi sia lui se non è figlio di Azucena? Si chiede anche perchè nel duello con il Conte di Luna non lo ha ucciso.
Azucena gli assicura di essere sua madre e spiega che il ricordo di quell'orribile rogo l'ha indotta a dire parole senza senso e lo esorta a compiere lui la vendetta.
Nel frattempo, un messaggero porta la notizia che Leonora, ritenendolo morto, stia per farsi suora per sfuggire alle insidie del Conte.
Il Trovatore, nonostante l'opposizione di Azucena, decide di andare al Convento per impedire all'amata di entrare in convento.
Scena II - Notte, in un convento vicino alla fortezza di Castellor.
Anche il Conte di Luna, giunge con i suoi fidi al convento per strappare al chiostro Leonora.
Leonora sta per entrare a far parte della comunità religiosa e conforta le sue dame che l'accompagnano e che si mostrano tristi per la sua decisione.
Il Conte le sbarra il passo con la ferma intenzione di rapirla, ma all'improvviso compare Manrico: nasce un acceso scontro, nel corso del quale l'arrivo dei seguaci di Urgel, disarmano il Conte e i suoi facendo in modo che Manrico possa allontanarsi con l'amata.

Atto III - Il Figlio della Zingara

Scena I - Accampamento delle truppe regie vicino alla fortezza di Castellor.
Le truppe regie, al comando del Conte di Luna, sono accampate nei pressi di Castellor, espugnato dagli armigeri di Urgel, ed attendono di sferrare l'attacco per il quale giungono rinforzi.
Ferrando, capitano delle guardie,  annuncia al Conte la cattura di una zingara ritenuta una possibile spia: è Azucena.
Interrogata, la donna dichiara di venire dalla Biscaglia per ritrovare il figlio che l'ha abbandonata, ma Ferrando riconosce in lei la rapitrice del bambino.
Azucena invoca il soccorso di Manrico: il Conte è allora soddisfatto di avere nelle sue mani l'assassina di suo fratello e di sapere che è la madre del suo rivale in amore.

Scena II - Atrio della Cappella di Castellor

Manrico e Leonora stanno andando all'altare per sposarsi e coronare il loro sogno..
Leonora è preoccupata per l'attacco dell'esercito del re, ma il Trovatore la rassicura assicurandole che, una volta suo sposo, combatterà con maggiore coraggio.
Arriva trafelato Ruiz, per comunicare che gli sgherri stanno preparando il rogo per Azucena e Manrico rivela allora a Leonora che la zingara è sua madre e corre in suo soccorso.
Atto IV - Il supplizio

Scena I - Un'ala del palazzo dell'Aliaferia

Manrico è stato catturato, incarcerato nella torre del palazzo dell'Aliaferia e condannato a morte.
Si ode la campana a morto ed il canto del "Miserere" per i condannati; Leonora ai piedi della torre ascolta l'ultimo addio dell'amato, poi, decisa a salvarlo a prezzo della propria vita, si offre al Conte di Luna in cambio della libererà del Trovatore.
Il nobile Conte, sempre innamorato di Leonora, accetta e le concede di portare, lei stessa, la notizia della grazia al prigioniero.
Di nascosto la coraggiosa ragazza ingoia furtivamente del veleno che teneva racchiuso in una gemma.



Scena II - La prigione all'interno della Torre nel Palazzo Reale in Biscaglia.

Nel carcere, Manrico veglia Azucena tormentata dalla sua vicina esecuzione del figlio, quando giunge inaspettata Leonora che gli si getta fra le braccia annunciandogli la grazia ed esortandolo alla fuga.
Egli dapprima esulta felice, poi, capito il duro prezzo del riscatto, aggredisce la donna e rifiutando sdegnosamente la clemenza del rivale.
Ma il veleno fa effetto rapidamente e Leonora muore.
Mentre Manrico si strugge dal dolore e dal rimorso, il Conte di Luna si rende conto del raggiro dell'amata per salvare il Trovatore e ordina agli sgherri di eseguire immediatamente la sentenza di morte di Manrico, obbligando Azucena ad assistere al supplizio dalla finestra della prigione.
Quando la scure ha decapitato l'infelice, la zingara, quasi impazzita, grida al Conte, inorridito:"Egli era tuo fratello! Madre, ora sei vendicata".

5 maggio

Ei fu. Siccome immobile, 
dato il mortal sospiro, 
stette la spoglia immemore 
orba di tanto spiro, 
così percossa, attonita 
la terra al nunzio sta, 

muta pensando all'ultima 
ora dell'uom fatale; 
né sa quando una simile 
orma di pie' mortale 
la sua cruenta polvere 
a calpestar verrà. 

Lui folgorante in solio 
vide il mio genio e tacque; 
quando, con vece assidua, 
cadde, risorse e giacque, 
di mille voci al sonito 
mista la sua non ha: 

vergin di servo encomio 
e di codardo oltraggio, 
sorge or commosso al subito 
sparir di tanto raggio; 
e scioglie all'urna un cantico 
che forse non morrà. 

Dall'Alpi alle Piramidi, 
dal Manzanarre al Reno, 
di quel securo il fulmine 
tenea dietro al baleno; 
scoppiò da Scilla al Tanai, 
dall'uno all'altro mar. 

Fu vera gloria? Ai posteri 
l'ardua sentenza: nui 
chiniam la fronte al Massimo 
Fattor, che volle in lui 
del creator suo spirito 
più vasta orma stampar. 

La procellosa e trepida 
gioia d'un gran disegno, 
l'ansia d'un cor che indocile 
serve, pensando al regno; 
e il giunge, e tiene un premio 
ch'era follia sperar; 

tutto ei provò: la gloria 
maggior dopo il periglio, 
la fuga e la vittoria, 
la reggia e il tristo esiglio; 
due volte nella polvere, 
due volte sull'altar. 

Ei si nomò: due secoli, 
l'un contro l'altro armato, 
sommessi a lui si volsero, 
come aspettando il fato; 
ei fe' silenzio, ed arbitro 
s'assise in mezzo a lor. 

E sparve, e i dì nell'ozio 
chiuse in sì breve sponda, 
segno d'immensa invidia 
e di pietà profonda, 
d'inestinguibil odio 
e d'indomato amor. 

Come sul capo al naufrago 
l'onda s'avvolve e pesa, 
l'onda su cui del misero, 
alta pur dianzi e tesa, 
scorrea la vista a scernere 
prode remote invan; 

tal su quell'alma il cumulo 
delle memorie scese. 
Oh quante volte ai posteri 
narrar se stesso imprese, 
e sull'eterne pagine 
cadde la stanca man! 

Oh quante volte, al tacito 
morir d'un giorno inerte, 
chinati i rai fulminei, 
le braccia al sen conserte, 
stette, e dei dì che furono 
l'assalse il sovvenir! 

E ripensò le mobili 
tende, e i percossi valli, 
e il lampo de' manipoli, 
e l'onda dei cavalli, 
e il concitato imperio 
e il celere ubbidir. 

Ahi! forse a tanto strazio 
cadde lo spirto anelo, 
e disperò; ma valida 
venne una man dal cielo, 
e in più spirabil aere 
pietosa il trasportò; 

e l'avvïò, pei floridi 
sentier della speranza, 
ai campi eterni, al premio 
che i desideri avanza, 
dov'è silenzio e tenebre 
la gloria che passò. 

Bella Immortal! Benefica 
Fede ai trïonfi avvezza! 
Scrivi ancor questo, allegrati; 
che più superba altezza 
al disonor del Golgota 
giammai non si chinò. 

Tu dalle stanche ceneri 
sperdi ogni ria parola: 
il Dio che atterra e suscita, 
che affanna e che consola, 
sulla deserta coltrice 
accanto a lui posò.