martedì 16 aprile 2013

solidi

i Solidi

giovanni Verga


Giovanni Verga nacque a Catania il 2 settembre 1840. L’attività del giovane scrittore si svolse, sia in campo letterario (nella composizione dei romanzi storici e patriottici), sia in campo politico (con Niceforo fondò e diresse il settimanale «Roma degli italiani»), nella città natale. Primariamente influenzato dal suo insegnante Don Antonio Abate, autore di opere intrise di romanticismo, Verga esordì con un romanzo intitolato Amore e Patria, scritto fra il 1856 e il 1857 e rimasto inedito.

La lettura appassionata di Dumas, Sue, Scott e Radcliffe produsse un inesorabile effetto. Nel 1861 infatti, su «Roma degli italiani» uscì a puntate I carbonari della montagna, opera in cui si trovavano mescolate una certa qual retorica patriottica e un vieto repertorio romantico. Nel 1863 venne pubblicato su «La nuova Europa» il secondo romanzo d’appendice verghiano intitolatoSulle lagune: ancora “amore” e “patria”, anche se il tema sentimentale cominciava a prevalere su quello patriottico.
Giunse il momento di lasciare la Sicilia, era il 1865: Firenze, capitale del regno d’Italia già da un anno, offriva a Verga l’ambiente mondano ideale in cui far spaziare il proprio talento. L’interesse del giovane provinciale inurbato per i fasti della mondanità trovò ampio sfogo in Una peccatrice (1866): «un peccato letterario», come ebbe a definirlo più tardi lo stesso autore. Il successo giunse più sonoro con Storia di una capinera (1871), romanzo in cui l’accento era posto sul tema delle passioni travolgenti e fatali. In esso si riscontrava, a ben vedere, una sorta di verismo ante litteram, soprattutto là dove Verga aveva narrato della pazzia della giovane protagonista costretta a farsi monaca.
Trasferitosi a Milano nel 1872, Verga frequentò i ritrovi eleganti del capoluogo lombardo ed entrò in contatto con gli scapigliati, pur non condividendo fino in fondo l’atteggiamento nichilista del loro movimento. Testimonianza di questa fase è il romanzo Eva (1873), che affianca alla figura del protagonista, Filippo Lanti, quella di Eva, una donna caratterizzata dalla spensieratezza vitale e dalla passionale psicologia amorosa: i benpensanti gridarono allo scandalo, mentre i critici decretarono la congiura del silenzio.
Non altrettanto felice può considerarsi il Verga dei successivi romanzi: Tigre reale (1873) edEros (1875) sono opere in cui si riscontra una perdita della coerenza del personaggio femminile, ormai sdoppiato nella figura della donna fatale, da una parte e in quella di femmina fedele al mito della casa, dall’altra. Si registra, intanto, un grande progresso sul piano della lingua e dello stile. La lezione data dall’Education sentimentale di Flaubert si assapora con piacevole certezza. Il gusto verghiano è comunque ancora troppo teatrale. Lo scrittore non si è del tutto congedato dal bel mondo: si è invece convinto della necessità di un distacco dalla vita di una certa parte della società, rappresentata dall’aristocrazia e dai gentiluomini.
Nel 1878, traumatizzato dalla morte della madre e angosciato dai sensi di colpa per aver abbandonato il focolare domestico, Verga avvierà la scrittura de I malavoglia, tornando nostalgicamente alla Madre mediterranea. Se Nedda (1875) rappresenta per alcuni l’inizio della nuova arte del Verga, per altri — in particolare Momigliano — non farà che rivelare come «l’elegante reduce dei salotti» abbia «cambiato materia ma non… il suo spirito e le sue abitudini mentali». Tesi, questa, che troverà conferma nel volume successivo Primavera e altri racconti, dove si tornerà alla società elegante e salottiera di Eros.
A proposito dell’incontro di Verga con il Verismo, Momigliano sostenne che, se fu per lo scrittore, inizialmente, una «spinta liberatrice» (Croce), si risolse poi in un motivo di debolezza. L’itinerario del Verga maggiore sarà segnato dallo sforzo di sottrarsi al verismo massiccio, per elevarsi ad un più consapevole realismo. Quando nel 1875 compose il “bozzetto marinaresco”Padron ‘Ntoni e quando, poi, nel 1878 annunciò a Salvatore Paola il ciclo della “marea” (successivamente rinominato “ciclo dei Vinti”), per Verga il Verismo era ancora uno strumento tecnico, che suggeriva un linguaggio nuovo. Solo con l’introduzione a L’amante di GramignaVerga fu in grado di accettare la dottrina dell’impersonalità; con Fantasticheria, poi, il provvisorio distacco dalla tematica mondana potrà dirsi consumato.
Primo frutto della “conversione” letteraria del Verga è Vita dei campi (1880): qui il Verismo è ancora liricamente sublimato, e si scorge, inoltre, il solito influsso vittorughiano dato dalla inevitabile catastrofe finale. Il senso di una tragedia ineluttabile appare anche ne I Malavoglia(1881), una grande opera nel senso drammatico del dolore e della morte e per la genialità della tecnica narrativa del “discorso rivissuto”.
Ne I Malavoglia, tuttavia, Verga continuò a fare retorica sul focolare e sulla necessità di non infrangere la legge della solidarietà che lega i poveri fra loro. L’ideale “dell’ostrica”, teorizzato inFantasticheria, non è una condizione di fatto, ma una formulazione ideologica. È stato spesso osservato come Verga mancasse di una chiara idea sociale. In realtà nello scrittore siciliano visse una coerente ideologia conservatrice, anche se di «conservatore illuminato»(Sapegno), che può spiegare il pessimismo fatalistico e il terrore della storia, rivissuto nell’Aci Trezza de I Malavoglia, paese reso microcosmo astorico, di vita vissuta secondo le necessità della natura, più che della storia.
La sfumatura ironica, invece, si ritrova in un altro grande romanzo: Mastro Don Gesualdo(1889), sintesi di tutta l’opera verghiana e capolavoro del Realismo italiano. Tra quest’ultimo e I Malavoglia si collocano Il marito di Elena (1882) — un ritorno alla complessa psicologia femminile dei romanzi mondani — le novelle milanesi Per le vie (1883) e, infine, le Novelle rusticane (1883). E così, al motivo della “casa” subentra quello della “roba” (La roba): mentre la visione del focolare si addice ai poveri, la passione per la “roba” prescinde dalle differenze di classe.
Dopo Mastro Don Gesualdo comincia a potersi scorgere il tramonto dello scrittore che, invano, ricerca una nuova espressione nel linguaggio teatrale. Il giudizio negativo sul teatro verghiano è unanime: il linguaggio e l’azione scenica non hanno la stessa intensità del paesaggio, elemento di forza dell’arte verghiana. Di questo periodo è Dal tuo al mio (1905), romanzo tratto dal un lavoro teatrale, che racchiude in sé una prefazione piena di strali polemici verso i socialisti.
L’involuzione delle idee politico sociali di Verga è ormai netta e rapida: in una lettera a Camerini del 1888 egli si definiva politicamente «moderato», ma era intimamente avverso al metodo della democrazia parlamentare. Più tardi diventerà sostenitore della politica crispina e africanista e, quando si verificheranno i luttuosi fatti di Milano del 1898, plaudirà alle repressioni di Bava-Beccaris. Nel 1912 aderì esplicitamente al partito nazionalista, fu interventista, dannunziano e antinittiano, non mancando di mostrare simpatie per il nascente partito fascista. A provocare queste prese di posizione interverranno anche motivi economici: Verga, proprietario terriero, era molto preoccupato dalla legge agrumaria che danneggiava i produttori, era in ansia per la mancata vendita dei suoi limoni di Novalucello e chiuso in una senile deformazione che aveva del maniacale: tale situazione valse a spiegare il silenzio artistico degli ultimi anni.
Dopo la raccolta Vagabondaggio (1887), iniziò il crepuscolo di Verga con I ricordi del capitano d’Arce (1891), stanca ripresa di motivi aristocratici mondani. Fallì il tentativo di dar vita, con la Duchessa di Leyra, a un imponente quadro della vita aristocratica siciliana: del romanzo, che doveva essere parte del progettato e mai concluso “ciclo dei Vinti”, comprendente anche I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo, vide la luce solo il primo capitolo, pubblicato nel 1922, dopo la morte dell’autore.
Verga visse i suoi ultimi anni a Catania, dove morì nel 1922 abbandonato a una vita inerte e tranquilla, a una solitudine sdegnosa e scontrosa, noncurante della tardiva fama consacrata dalla nomina a senatore nell’ottobre del 1920.

Excel


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Traviata


La traviata è un'opera in tre atti di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dalla pièce teatrale di Alexandre Dumas (figlio) La signora delle camelie; fa parte della "trilogia popolare" assieme a Il trovatore e a Rigoletto.
Fu in parte composta nella villa degli editori Ricordi a Cadenabbia, sul lago di Como. La prima rappresentazione avvenne al Teatro La Fenice di Venezia il 6 marzo 1853 ma, a causa soprattutto di interpreti non all’altezza e della scabrosità dell'argomento, si rivelò un sonoro fiasco; ripresa l’anno successivo con interpreti più validi e retrodatando l'azione di due secoli, riscosse finalmente il meritato successo. Gli interpreti e gli artisti coinvolti nella prima del 1853 furono i seguenti:

PersonaggioInterprete
ViolettaFanny Salvini Donatelli
Alfredo GermontLodovico Graziani
Giorgio GermontFelice Varesi
Flora BervoixSperanza Giuseppini
AnninaCarlotta Berini
GastoneAngelo Zuliani
DoupholFrancesco Dragone
Marchese d'ObignyArnaldo Silvestri
Dottor GrenvilAndrea Bellini
GiuseppeGiuseppe Borsato
Domestico di FloraGiuseppe Tona
CommissionarioAntonio Manzini
SceneGiuseppe Bertoja
Maestro al cembaloGiuseppe Verdi (per tre recite)
Primo violino e direttore d'orchestraGaetano Mares


Atto primo
A Parigi, nella lussuosa casa di Violetta Valéry, «cortigiana» di alto bordo, è in corso l’ennesima festa. Vi partecipano i soliti mondani aristocratici, le loro ‘signore’, qualche dama di dubbia nobiltà e moralità. È un tripudio di chiacchiere, di risate e di musica. Tra i presenti, per la prima volta e piuttosto a disagio, c’è il giovane Alfredo Germont: ha chiesto all’amico Gastone di venire introdotto, perché da qualche tempo è segretamente innamorato della padrona di casa. Costei si è accorta delle attenzioni del giovane, dei suoi complimenti così per bene, e vi risponde schernendosi ironicamente. Gastone propone un brindisi e invita Alfredo a formularlo («Libiam nei lieti calici»). Rivolto a tutta la compagnia, in realtà il brindisi diventa un duetto di sottintesi tra il giovane e Violetta: «La vita è nel tripudio» inneggia lei, «Quando non s’ami ancora» risponde lui. Intanto nell’attiguo salone si aprono le danze e tutti vi si dirigono, eccetto Violetta costretta ad arrestarsi per un violento colpo di tosse; per assisterla resta con lei Alfredo. Così rimangono soli e le profferte del giovane si fanno più serrate («Un dì felice, eterea»), mentre dall’altra sala giunge attutito il suono di un valzer. La donna da parte sua ribadisce di esser disposta solo all’amicizia. Il colloquio è interrotto da Gastone, rientrato a vedere che cosa i due stiano facendo. Ottenuto un appuntamento per il giorno dopo, Alfredo se ne va, mentre Violetta rimasta sola medita, turbata, sulle sue parole d’amore: forse, pensa, è arrivato anche per lei il momento di un amore vero e reciproco («È strano!...»… «Ah, forse è lui che l’anima»). Poi, come timorosa di illudersi troppo, riafferma la sua indipendenza da ogni legame, la dedizione alla libertà e ai piaceri dei sensi («Follie!... follie!... delirio vano è questo!...»…«Sempre libera degg’io»).

Atto secondo
Siamo in una casa di campagna nei dintorni di Parigi. Entra Alfredo, depone il fucile da caccia e canta la sua gioia per i tre mesi sereni trascorsi finora con l’amata Violetta («Lunge da lei per me non v’ha diletto!»...«Dei miei bollenti spiriti»). Ma subito la sua felicità s’incrina, quando scorge la domestica Annina rientrare da Parigi e viene a sapere che è stata mandata dalla signora a vendere cavalli, cocchi e quant’altro lei possieda: la coppia sta spendendo troppo, e d’altra parte lei voleva nascondergli le sue difficoltà economiche. Resosi conto della situazione («O mio rimorso, o infamia»), Alfredo decide di correre in città per cercare i soldi. Intanto sopraggiunge Violetta. È tranquilla e felice, apre la posta che le arriva da Parigi; sorride agli inviti dei vecchi amici che la reclamano a feste che a lei ormai non interessano più, quando le annunciano l’arrivo di un signore. È il padre di Alfredo, Giorgio Germont. Costui prima l’accusa di rovinare economicamente il figlio; poi, quando Violetta gli mostra, documenti alla mano, che è lei che si sta rovinando, cambia il tono recriminatorio in rammarico e le dice di avere una figlia in procinto di sposarsi («Pura siccome un angelo»), ma il futuro genero ha deciso di lasciarla se Alfredo non interrompe il vergognoso rapporto. Violetta cerca un compromesso, come allontanarsi dall’amato per un po’ di tempo, ma Germont insiste: dovrà lasciarlo per sempre. La donna allora esterna tutta la forza del suo sentimento («Non sapete quale affetto») e gli dice che preferirebbe morire. Ma il vecchio ipocrita finisce col convincerla insinuandole che l’amore è legato alla bellezza («Un dì, quando le veneri»), che cede presto alle prime rughe e alla noia. A questa possibile verità, la donna china il capo («Dite alla giovane»): farà credere all’amato di non poter lasciare la vita di prima. Chiede soltanto una grazia al genitore («Morrò!... la mia memoria»): che un giorno Alfredo, quando lei sarà morta, conosca la verità. Ormai sola, Violetta comincia a scrivere la lettera che la condannerà, ma viene interrotta dal rientro di Alfredo. Egli le chiede che cosa stia scrivendo e a chi, ma è turbato perché ha saputo dell’arrivo del padre. Violetta è sconvolta, parla e piange, poi esplode in un urlo d’amore («Amami, Alfredo») e corre in giardino. Poco dopo ad Alfredo viene recapitata una lettera, quella di Violetta; la legge e, disperato, si abbandona nelle braccia del padre rimasto nei pressi. Germont tenta di convincere il figlio a tornare a casa («Di Provenza il mar, il suol»). Ma questi lo respinge, non lo ascolta, pensa a un probabile rivale (il barone Douphol), fugge a precipizio per raggiungere la donna e vendicarsi dell’abbandono.
Siamo ora nel palazzo di Flora, l’amica di Violetta, nel pieno di una festa in maschera. Ci sono signore vestite da zingare («Noi siamo zingarelle») e signori, tra cui Gastone, abbigliati da toreri («Di Madride noi siam mattadori»). E tutti sanno già che i due amanti rifugiatisi in campagna si sono separati. Tuttavia l’arrivo alla festa di Alfredo coglie di sorpresa i presenti. Poco dopo arriva anche Violetta, al braccio di Douphol. L’incontro è imbarazzante, la tensione è estrema. Alfredo vince al gioco tutti, perfino il suo rivale barone. Viene annunciata la cena e i convitati si recano in sala da pranzo. Violetta chiama in disparte Alfredo, cerca di giustificare il suo comportamento ma, per non svelare la trama paterna, è costretta a mentire, a dichiarare che ama il barone. Infuriato, il giovane invita tutti gli altri ad ascoltarlo e alla loro presenza denuncia la donna («Ogni suo aver tal femmina»), gettandole ai piedi con disprezzo una borsa di denari. Per un gesto così volgare unanime è la riprovazione («Oh, infamia orribile»), a cui si unisce quella del padre Germont entrato appena in tempo per assistere alla scena («Di sprezzo degno se stesso rende»). L’atto termina con un concertato che assomma la condanna dei convitati alla disperazione di Violetta e al rimorso di Alfredo.

Atto terzo
Siamo ai momenti estremi della sventurata giovane; la tubercolosi ormai, come dirà il medico ad Annina, non le accorda che poche ore. In scena infatti, accanto a lei, vigila la fedele domestica; in seguito arriva il dottore, a chiedere come la malata abbia passato la notte. Fuori il carnevale impazza, si sentono i canti e le danze. Violetta si consola leggendo e rileggendo la lettera ricevuta da Germont, che la informa del duello tra il barone e suo figlio, in cui il primo è rimasto ferito ma lievemente; inoltre le scrive che Alfredo sa ora la verità sul suo sacrificio e che dall’estero sta tornando precipitosamente da lei. E lei aspetta tra speranza, timore e la consapevolezza che ormai è troppo tardi («Addio del passato»). Torna Annina in grande agitazione, e non fa a tempo ad annunciarle l’arrivo dell’amante che lui entra e l’abbraccia. Alla commozione e alla gioia segue un duetto di illuso ottimismo («Parigi, o cara»).Violetta vorrebbe alzarsi e partire subito, ma le forze la tradiscono e ricade sul canapè («Gran Dio!... morir sì giovane»), tra il dolore e la costernazione di Alfredo. Sopraggiunge anche Germont, pieno di rimorsi. «Oimè, tardi giungeste!» gli mormora l’infelice. Poi Violetta lascia nelle mani dell’amato un suo ritratto dei tempi migliori («Prendi, quest’è l’immagine»). Per un attimo sembra riprendersi; invece muore tra le braccia dei suoi cari.

La musica dell'Africa!!!


La musica dell'Africa

 La musica africana, nel senso di musica originaria dell'Africa, è estremamente eterogenea, in quanto riflette la varietà etnica, culturale e linguistica del continente. L'espressione "musica africana" viene talvolta usata anche in modo più specifico per riferirsi alla musica dell'africa subsahariana, essendo la tradizione musicale del Nordafrica essenzialmente sovrapponibile a quella mediorientale. Elementi mediorientali si trovano anche nella musica dei popoli della costa est del continente, che risente anche di influenze indiane, persiane e in generale degli effetti degli scambi commerciali e culturali sull'Oceano Indiano. In ogni caso, anche all'interno di queste tre aree principali (Nordafrica, Africa subsahariana, Africa orientale) esiste una grandissima diversificazione degli stili sia della musica etnica tradizionale che della musica moderna. Quest'ultima risente praticamente ovunque (ma soprattutto nei paesi con una forte eredità coloniale) dell'influenza della musica leggera europea e statunitense. D'altra parte, la diaspora africana e il conseguente diffondersi in America ed Europa della tradizione musicale africana ha influito in modo determinante sullo sviluppo della musica leggera occidentale.
Nell'Africa subsahariana la musica e la danza sono quasi sempre elementi centrali e fondamentali della cultura dei popoli, e sono dotati di grande valore sociale e religioso. Ogni etnia ha una propria tradizione musicale così come ha una propria tradizione letteraria e un proprio insieme di regole e credenze; ogni gruppo sociale possiede un repertorio musicale di riferimento e dei sottogeneri appropriati a determinate celebrazioni (per esempio nascita, passaggio all'età adulta, matrimonio, funerale) o anche semplicemente attività quotidiane come il raccolto nei campi e lo smistamento delle riserve alimentari.
Ciò che ritroveremo sempre in ogni variante musicale, a prescindere dallo scopo per cui viene prodotta, è la caratteristica poliritmia, la capacità cioè di sviluppare contemporaneamente diversi ritmi e di mantenerli in modo costante ed uniforme, senza che uno prevarichi su di un altro. Una particolare funzione sociale è rappresentata dalle percussioni e dalle campane che in molte zone vengono utilizzati come strumenti di comunicazione. La musica è, ad esempio, una delle pratiche più note e più impiegate per un griot ( o griotte) proprio perché in molti contesti le relazioni sono spesso basate sull’impatto emozionale. Anche il canto è molto diffuso e riveste una funzione sociale importantissima, durante i funerali, ad esempio, per ripercorrere le tappe dell’esistenza del defunto, dunque mantenerne viva la memoria e per narrare le imprese degli antenati cui spetta il compito di accogliere l’anima della persona mancata. Le epopee mitiche cantate dai griot, oltre a mettere in evidenza il potere costituito, trasmettono gli avvenimenti particolari che fanno parte della storia di una comunità e permettono una trasmissione facilitata proprio dal ritmo della melodia sottostante. Il canto, la musica e la danza diventano da un lato veicoli di tipo simbolico e dall’altro preziosi strumenti della memoria collettiva. La musica tradizionale si trasmette oralmente, dunque non esistono spartiti o forme scritte in cui è possibile rinvenire delle melodie. Tutto viene creato e comunicato direttamente ed è per questo che un aspetto importantissimo è dato dall’improvvisazione.
La complessità ritmica delle musiche africane si è di fatto trasferita a molte espressioni musicali dei paesi dell’America Latina; l’aspetto più affascinante di questa poliritmia è costituito dalla possibilità di distinguere chiaramente i diversi ritmi pur percependoli unitariamente in modo coerente. Per quanto riguarda la voce, è interessante notare che generalmente si utilizzano timbri canori tendenti al rauco e al gutturale. Molte lingue locali, in Africa, sono di tipo tonale ed è per questo che esiste un collegamento molto stretto tra la musica e la lingua. Soprattutto nel canto, è il modello tonale del testo che condiziona la struttura melodica. Conoscendo molto approfonditamente queste lingue, è possibile riconoscere dei testi anche nelle melodie degli strumenti ed è quest’effetto che ha dato fama al cosiddetto “tamburo parlante”.la musica africana è piena di ritmi.

Canzoni

Come nasce una canzone

Una canzone può nascere dalla necessità di dare un veste musicale a un testo poetico preesistente, oppure trarre origine da un motivo "che ci frulla nella testa", in giro di accordi, un "riff" trovato sulla chitarra. Altre volte parole e musica nascono insieme.
Comunque sia, le idee vanno poi sviluppate per dar "forma" a una vera canzone e, poichè nella breve durata del brano nulla deve trovarsi fuori

Strofa e ritornello

Il più delle volte una canzone si organizza in 2 parti distinte basate su 2 motivi di diverso carattere musicale ed espressivo. Una di queste, la strofa, serve a l'autore per raccontare la vicenda: la melodia asseconda il testo mantenendo un andamento abbastanza vicino al passato. Nell'altra, il ritornello, il testo assume un carattere lirico, la musica si carica di espressività e il canto si fa più appassionato. Se nella strofa l'autore ricerca la giusta atmosfera, nel ritornello egli svela le sue carte: qui ci deve essere tutto quello che si deve ricordare della canzone, quindi il testo è facilmente moralizzabile e la melodia orecchiabile.

Antonio Vivaldi


Antonio Lucio Vivaldi (Venezia, 4 marzo 1678 – Vienna, 28 luglio 1741) è stato un compositore e violinista italiano legato all'ambiente del tardo barocco veneziano.
Fu uno dei violinisti più virtuosi del suo tempo e uno dei più grandi compositori di musica barocca. Considerato il più importante, influente e originale compositore della penisola italiana della sua epoca, Vivaldi contribuì significativamente allo sviluppo del concerto, soprattutto solistico, genere iniziato da Giuseppe Torelli, e della tecnica del violino e dell'orchestrazione. Non trascurò inoltre l'opera lirica. Vastissima la sua opera compositiva che comprende inoltre numerosi concerti, sonate e brani di musica sacra.
Le sue opere influenzarono numerosi compositori del suo tempo, soprattutto tedeschi, tra cui Bach, Pisendel e Heinichen.
Come avvenne per molti compositori del barocco, dopo la sua morte il suo nome e la sua musica caddero nell'oblio. Fu grazie alla ricerca di alcuni musicologi del XX secolo, come Arnold Schering, Marc Pincherle, Alberto Gentili e Alfredo Casella, che Vivaldi uscì dalla dimenticanza.
Le sue composizioni più note sono i quattro concerti per violino conosciuti come Le quattro stagioni, celebre esempio di musica a soggetto.
Gli è stato dedicato un cratere su Mercurio.

Roma, magnifico teatro del barocco


Roma alla fine del XVI secolo doveva apparire come un grande cantiere abbandonato, una scena in allestimento da decenni e mai completata, un magnifico teatro in decadenza. La stagione dei fasti rinascimentali aveva avuto vita breve nell'Urbe e bruscamente arrestata da diversi fattori: dallo scisma protestante all'avvento di occupanti stranieri, culminato con il Sacco dei lanzichenecchi di Carlo V che nel 1527 avevano devastato la città e la sede di Pietro.
Ovunque erano visibili, come splendide incompiute dimenticate, le testimonianze del rinnovamento artistico e architettonico che avevano caratterizzato l'umanesimo di fine'400 e il principio del secolo successivo. Un esempio particolarmente emblematico era costituito dalla imponente “fabbrica di San Pietro” e dalla grande cupola michelangiolesca, mirabile esempio di quella rinascenza cinquecentesca, innestata sul corpo ancora medioevale della basilica.
Con la Riforma luterana la cattolicità era stata colpita al cuore nelle sue manifestazioni più vistose, attaccati i cerimoniali splendidi della Curia le commistioni di sacro e di profano che avevano fatto della sede dei pontefici una corte mondana, e della città una classica scena, dove feste e ludi dell'antichità erano parsi risuscitare.
I dettami del Concilio di Trento, in risposta alla contestazione protestante, erano improntati a promuovere una severa Controriforma che riportasse la Chiesa cattolica ad una sobrietà e un pauperismo originari: furono ridotti al minimo gli apparati esteriori delle cerimonie, il fasto dei luoghi e degli arredi di culto e soprattutto la pompa delle celebrazioni e delle feste, individuate come temibilenegotium diaboli.
In questa fase Roma perde il suo ruolo protagonista, eclissata dalla Milano di Carlo Borromeo, personalità simbolo della Controriforma in Italia, per poi riconquistarlo solo alla fine del'500 con l'avvento di Sisto V (1584-1590) e il rilancio di una cattolicità papalina e accentratrice. Si riaprono antichi cantieri, se ne creano di nuovi, si incide nel profondo della struttura urbana per ridisegnare una 'Città di Dio' degna di promuovere i fasti della renovatio christiana.
Non è possibile comprendere la magnifica fioritura della arti che conobbe Roma nei primi decenni del XVII secolo, l'esplosione di individualità geniali e di movimenti in una concentrazione mai vista prima e mai ripetutasi nella storia, senza tener conto di questa involuzione e dello stato di decadenza e di abbandono in cui versava tristemente la città.
Possiamo a ben ragione parlare di un Secondo Rinascimento Romano, che reagisce con vigore a quella crisi, assume il progetto riformatore tridentino quale fattore di espansione, coagula intorno alla nuova immagine della città le principali istanze religiose e culturali, fonda gli stilemi estetici e i procedimenti retorici che renderanno ampiamente riconoscibile una temperie barocca anche in ambito europeo.
Tutto l'arsenale celebrativo ed estetico proprio delle celebrazioni cattoliche, che era stato demonizzato dalla Controriforma, frammisto al gusto tipicamente italico per il teatro, la musica e il belcanto, viene non solo riscoperto ma potenziato, perfezionato, reso magnifico e imponente come strumento della rinascita della Chiesa di Roma e della conversione dei popoli.
La Roma cattolica e barocca diventa così pienamente erede della Roma classica e imperiale, riscoperta, valorizzata e santificata nei suoi fasti pagani: un fervore di studi, pubblicazioni e scavi riportano alla luce la magnificenza della città pagana, ma anche catacombe, cripte colme di reliquie e basiliche medioevali, testimonianza di quella purezza originaria che la Chiesa aveva inseguito con la Controriforma.
Viene rinnovato il sistema viario e, in una commistione di elementi sacri e profani, templi classici ed esotici obelischi, nascono insoliti snodi prospettici, scenografie che si dischiudono sugli stretti vicoli medioevali come le enormi e fastose scene di un teatro immaginario.
Il cantiere della Fabbrica di San Pietro riapre: la basilica viene rinnovata secondo il progetto di Carlo Maderno e completata con il colonnato del Bernini, assurto a simbolo della cristianità mondiale e di ogni tempo. Le famiglie cardinalizie fanno a gara ad accaparrarsi uno dei numerosi architetti che animano la Roma baroccaper il restauro o la realizzazione delle loro residenze ma anche per la “coreografia” di eventi mondani e celebrazioni liturgiche che avrebbero dato maggior lustro e prestigio alle rispettive casate.
E' indubbio il valore che abbiano rivestito questi festeggiamenti e la loro raffinata progettazione nella costituzione di un'estetica barocca che ancora oggi è ben visibile a Roma e ne costituisce un tratto distintivo.

La festa barocca a Roma

Molte celebrazioni della Roma barocca nascono da una commistione di antiche ritualità classiche pagane con elementi cristiani: ne è un esempio il corteo per la cerimonia della Presa del Possesso del nuovo pontefice, il quale compie lo stesso tragitto degli imperatori trionfanti e vittoriosi. Attraversa la città da San Pietro a San Giovanni in Laterano fermandosi sul Campidoglio per ricevere il tributo dei senatori, con la consegna delle chiavi; il corteo culmina nella magnifica piazza michelangiolesca, perfetto palcoscenico sopraelevato e aperto su un lato, talvolta sormontato da un arco ligneo montato all'uopo.
Nei primi decenni del Seicento il percorso viene mutato e, pur mantenendo le sue tappe simboliche e tradizionali, viene a concludersi in Piazza Navona, più ampia ed adatta ad ospitare le folle, i tornei e le giostre. La piazza, che alla fine del'500 appariva come uno sterrato ovaleggiante, viene trasformata in uno dei simboli stessi della romanità dalla Fontana dei Fiumi di Gian Lorenzo Bernini e dalla facciata della Chiesa di Santa Cecilia di Francesco Borromini. Vicende mitiche e personaggi olimpici fanno così da sontuoso sfondo alla celebrazione del trionfo papale, in un tutt'uno armonico e apollineo.
Le principali basiliche antiche - San Paolo, San Giovanni, Santa Maria Maggiore subiscono poderose ristrutturazioni che le ampliano e le adattano ad ospitare gli imponenti apparti celebratvi ed architettonici della rinascita del fasto cattolico. Sulle scene del teatro di collegio promosso dai Gesuiti, nell'ambito del più significativo progetto pedagogico della Controriforma, opere come la tragediaFlavia o il Crispo del padre Bernardino Stefonio, rappresentati al Collegio Romano ai primi del Seicento, propongono le vicende di martiri cristiani nella Roma tardo-imperiale in forma di regolare tragedia con cori danzanti e in lingua latina.
Nuovo impulso viene dato alle celebrazioni dei santi e dei martiri, ai funerali di personalità illustri, ai cortei e alle processioni, che già dal XVI secolo erano caratterizzati da istallazioni temporanee di baldacchini e catafalchi ligeni: è proprio a questi ,realizzati però in forma permanente, che si ispirano gli architetti della Roma barocca, quando realizzano la “lanterna”di Sant'Ivo alla Sapienza o il baldacchino dell'altare maggior di San Pietro.
Roma Gran Teatro del Mondo è l'insegna frequente in questo tempo, a indicare la vocazione internazionale di questa 'scena' urbana: ogni potenza straniera dispone di una suona zona di “influenza”- ambasciate, palazzi, chiese nazionali-che occupa nelle occasioni speciali e attiva con apparati effimeri, concorrendo a una simbolica guerra fatta di giochi pirotecnici, istallazioni temporanee ed elementi scenografici.

Le 'machine' scenografiche

La fiorentissima industria romana dello spettacolo e della festa mette a disposizione le migliori maestranze artigianali da impiegare in tutti i settori dell'allestimento, insieme con i grandi artisti della stagione barocca.
Il teatro a Roma nella prima metà del Seicento era fiorito soprattutto nelle accademie di dilettanti, nei collegi, presso le piccole corti aristocratiche come quella dei Barberini e quelle delle ambasciate di Francia e di Spagna. Nella seconda metà del secolo, sono attivi in particolare i Pamphili, i Colonna, gli Ottoboni, nei teatri dei loro palazzi dove il melodramma trionfa. Lo spettacolo dilaga, con maschere e carri apparati, in tempo di carnevale per le strade e le piazze - in particolare sulla via del Corso - malgrado ripetuti tentativi da parte dei pontefici di arginare e regolamentare il fenomeno.
Un grande impulso al teatro a Roma si deve a Cristina di Svezia: protagonista della vita intellettuale della città, promuove e finanzia la prima istituzione teatrale pubblica dell'Urbe, il teatro TORDINONA, progettato da Carlo Fontana e realizzato nel 1671.
Moltissimi artisti prestano la loro opera come scenografi per teatri pubblici e privati, spesso riproponendo negli allestimenti elementi architettonici della realtà classica o contemporanea, abbattendo i confini tra il mondo reale e quello del palcoscenico: da quel momento l'architettura entrerà nel teatro e la scenografia diverrà parte integrante di numerosi scorci cittadini, che arriveranno a cambiare totalmente fisionomia, ad essere coperti o trasformati da istallazioni temporanee realizzate sul modello delle MACHINE tipiche dei “dietro le quinte”.
Pietro da Cortona, ad esempio, prestò la sua opera per affrescare la volta del salone centrale del palazzo Barberini e per la realizzazione delle scenografie del teatro interno alla dimora cardinalizia: è ricordata in numerose cronache dell'epoca la magnificenza del suo allestimento del dramma sacro per musica Sant'Alessio (1634) di Bruno Rospigliosi.
Tuttavia il più fantasmagorico e imponente apparato festivo che la Capitale ricordi è senza dubbio quello eretto a Trinità dei Monti, ancora priva della settecentesca scalinata, in occasione della nascita del Delfino di Francia, figlio di Luigi XIV e di Maria Teresa di Spagna. Regista della festa ed ideatore dell'apparato effimero fu Gian Lorenzo Bernini, che considerò sempre la realizzazione di istallazioni temporanee una parte integrante del progetto globale di rinnovamento dell'intera città, sia dal punto di vista urbanistico che decorativo. A lui venne delegata l’organizzazione dell’intera giornata festiva, lo spettacolo pirotecnico finale e, non ultima, la realizzazione grafica destinata a tramandare il ricordo di tanta magnificenza.
Piazza di Spagna venne completamente trasformata da una costruzione effimera che ricopriva la facciata della chiesa: sui campanili grandeggiavano la iniziali del re e della regina di Francia al di sotto delle quali era posto un delfino sovrastato da una gigantesca corona; più in basso era situata una nuvola, mediatrice tra gli elementi naturali dell’acqua, aria e terra, nel mezzo della quale una statua raffigurante la Discordia precipitava tra le fiamme.
Molti di questi elementi erano meccanizzati e si animavano tramite ingegnosi congegni mossi da argani, carrucole e in alcuni casi da apparati idrici: dalla montagna che sosteneva le insegne dei reali francesi scorrevano ruscelli veri ed erano stati impiantati alberi reali, da una grotta ricreata in vera roccia uscivano realmente fuoco e fiamme e numerosi personaggi in costume animavano la scena. La realizzazione di questa meraviglie richiese più di tre mesi di lavoro e fu distrutta il giorno stesso dei festeggiamenti, “crollando”coreograficamente sotto il tuonare dei fuochi pirotecnici che conclusero l'evento.
Altro festeggiamento, questa volta non unico ma reiteratosi più e più volte nell'Urbe durante tutto il '600 ed oltre, per il quale il Bernini mi se a disposizione il suo genio creativo fu la famosa Girandola di Castel Sant'Angelo.
Nell'anno 590 d.C.Roma fu flagellata da una terribile epidemia di peste: una notte un bagliore accecante squarciò il buio, illuminando l'allora Mole Adriana, oggi Castel Sant'angelo. La tradizione vuole che quello scintillìo fosse quello della spada dell'Arcangelo Gabriele che veniva rinfoderata: dalla mattina successiva il morbo scomparve dalla città.
In commemorazione di questo evento ed in concomitanza con i festeggiamenti per l'ascesa al soglio pontificio di Sisto IV nel 1481, nacque la tradizione di allestire un magnifico spettacolo pirotecnico sulla terrazza del castello.
Alla coreografia della Girandola contribuì tra gli altri Michelangelo Buonarroti, ma è la versione architettata dal Bernini quella che ha lasciato maggiormante il segno nella memoria dei milioni di spettatori che l'hanno ammirata, invariata, nei secoli.
In numerosi studi e bozzetti che l'architetto eseguì per preparare l'evento, è evidente la volontà di riprodurre la forza coreografica e l'impatto visivo di una eruzione vulcanica e lo stesso Bernini dichiarò a tal proposito di essersi ispirato allo Stromboli, che aveva avuto occasione di vedere attivo durante un viaggio.
La sua coreografia fu apprezzata a tal punto che si decise di riproporla più volte l'anno: a Pasqua, per l’incoronazione dei papi, per i loro compleanni, per l’arrivo dei principi e in occasione della festa dei Santi Patroni Pietro e Paolo. “Pare che tutte le stelle del cielo caschino in terra” così si dice in una cronaca dell' epoca parlando della Girandola allestita dal Bernini.
Ancora nell' 800 la stessa Girandola richiamava spettatori da tutto il mondo e veniva immortalata da artisti come Piranesi e Wright.

Il ruolo della musica nella festa barocca

Un elemento imprescindibile di tutte queste celebrazioni era la musica, che a Roma, all'inizio del '600 si articolava ancora attraverso forme e mezzi esecutivi di matrice rinascimentale: eseguita per lo più in ambiti ecclesiali o in palazzi gentilizi la musica strumentale non poteva essere considerata un genere autonomo, in favore delle polifonia sacra e del madrigale cinquecentesco, più fruibili e facilmente eseguibili anche da complessi non professionistici.
Le feste barocche hanno avuto in qualche misura il merito di prolungare la vitalità di queste più antiche forme d'arte e di favorire delle rielaborazioni delle stesse: è il caso della monodia, ovvero una linea vocale singola che si stacca dall'insieme polifonico per costituire una melodia autonoma.
Questo “esperimento”, che pone le basi per il futuro sviluppo del melodramma, fu tentato per la prima volta nell'anno 1600 proprio in una festa, all'interno dello spettacolo per i festeggiamenti di nozze di Maria dè Medici con Enrico IV re di Francia. Nel Teatro Mediceo degli Uffizi fu rappresentato “Il rapimento di Cefalo”, musicato da Giulio Caccini su testo di Gabriello Chiabrera: si tratta della prima opera interamente cantata da personaggi solisti.
Anche le tematiche delle coreografie e delle scenografie delle feste romane, spesso ispirate all'antichità classica, all'immaginario dell'Olimpo o dell'Arcadia, hanno incoraggiato i musicisti ad orientarsi su questi motivi che saranno poi caratterizzanti del melodramma di gusto italiano per tutto il XVII e il XVIII secolo.
La musica strumentale, da sempre relegata ad un ruolo secondario rispetto a quella vocale, ricevette nuovo impulso dalle esigenze delle grandi feste urbane, che richiedevano sonorità adeguate ad ampi spazi e a folle oceaniche. A questo scopo nasce forse una delle forme più tipiche del barocco musicale: il concerto grosso, che è contrassegnato da un piccolo gruppo d'archi chiamati concertino e da uno più ampio, in alternanza con quello o procedendo congiuntamente in un assieme. Costante presenza: il clavicembalo, a sostenere il gioco di entrambi gli organici e la loro base armonica (con il termine di basso continuo).
Tra coloro che portarono questa forma ai massimi gradi di raffinatezza, possiamo citare Arcangelo Corelli, che operò a Roma nell'ultima parte della sua vita e compose 12 concerti grossi, molti dei quali per occasioni specifiche, come quello “per la notte di Natale”.